Filosofia e Religioni

Adriana Zarri: la via del monachesimo laico

Teologa negli anni del Concilio Vaticano II, quindi scrittrice e poi dal 1975 eremita nella campagna del canavese, coltivando la terra e allevando animali

  • 26 aprile, 08:05
Adriana Zarri
  • Wikipedia
Di: Paolo Rodari

“In certi momenti mi sento soffocare: ho bisogno di fuggire lontano, di trovarmi sola, di respirare l’azzurro e le nubi, di riempirmi il petto di tutta l’aria del cielo! La vita comune è terribile per questo, non tanto per gli attriti e gli urti di carattere che può provocare, quanto piuttosto per dover ridurre a un denominatore comune tutte le diversità”.

Si esprime così, Adriana Zarri (26 aprile 1919 – 18 novembre 2010), teologa e scrittrice scomparsa nel 2010, in uno dei momenti più delicati della sua esistenza, quando ancora poco più che ventenne si trova all’interno della Compagnia di San Paolo di Milano, l’istituto religioso nel quale pensa di farsi suora. Lascerà presto la Compagnia per la strada eremitica, il solo a solo con sé stessa e con il mistero di Dio, ma lo farà dopo un lungo travaglio di ricerca della propria più autentica vocazione. Un travaglio che la spinge a riconoscere l’impossibilità di vivere l’omologazione che la strada religiosa può portare con sé, l’assoggettamento a regole comuni, la rinuncia a parte della propria individualità in favore di percorsi condivisi. Le sue parole sono state pubblicate da poco da Einaudi in un volume che raccoglie i suoi diari inediti giovanili: “La mia voce sa ancora di stelle. Diari 1936-1948”, a cura di Francesco Occhetto.

Adriana Zarri

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I testi ripercorrono anche gli anni della pace nel paese natio, San Lazzaro in Savena. Zarri trascorre le giornate senza preoccuparsi del domani, il tempo in cui semplicemente rimane “in attesa di vivere con tutte le mie facoltà”. I genitori la iniziano alla religione cristiana. Da subito, tuttavia, sente una distanza: “La mia non era una religione, non meritava questo nome, era piuttosto una superstizione, un’arida credenza che imponeva formalità esterne e convenzionali e che mi era troppo lontana per poter entrare a giudicare e regolare la mia vita privata”. E ancora: “Io ero credente ma, escluse le aride pratiche fatte per consuetudine, vivevo come se non lo fossi”. Tuttavia, non ha il coraggio di rilevare a nessuno questo travaglio interiore: “Mi ribellai a tutto e a tutti - scrive – e lo feci subdolamente sotto l’infame maschera dell’ipocrisia e, volendo essere ipocrita fino alla fine né svelare ad alcuno le mie iniquità, le tacqui anche al mio confessore”.

Adriana Zarri: sulla povertà

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Successivamente non sarà più così. Poco dopo l’entrata nella Compagnia di San Paolo quella distanza dalla “Chiesa-istituzione” e dalle sue regole tornerà a farsi prorompente e avrà il coraggio di esprimerla. Scrive: “Di tanto in tanto scappo su in terrazza o in un angolo del giardino quando non c’è nessuno e mi fermo a guardare la sera che scende adagio e l’aria che si sbianca, poi s’incupisce, poi trema di stelle”. E ancora: “In certi momenti mi sento soffocare: ho bisogno di fuggire lontano, di trovarmi sola, di respirare l’azzurro e le nubi, di riempirmi il petto di tutta l’aria del cielo. La vita comune è terribile per questo, non tanto per gli attriti e gli urti di carattere che può provocare, quanto piuttosto per dover ridurre a un denominatore comune tutte le diversità”. Zarri non resite. E lascia, divenendo ciò che intimamente desidera, teologa negli anni del Concilio Vaticano II, quindi scrittrice e poi dal 1975 eremita nella campagna del canavese, coltivando la terra e allevando animali. Dal suo ritiro collabora con diverse riviste e soprattutto con il quotidiano “il Manifesto” anche grazie ad una intensa amicizia con Rossana Rossanda.

Il travaglio interiore di Zarri è tutto in un distacco sempre più profondo che sente fra sé e il cristianesimo tradizionale, fra sé e un Dio monolitico e patriarcale che la Chiesa le propone, un cristianesimo incapace di installarsi nella vita reale. Di qui la scelta di vivere libera da ogni condizionamento, anche religioso. Sul “il Manifesto”, nella rubrica Parabole, prende posizione sui temi più scottanti. Importante, in particolare, la campagna a favore della Legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza. E dà libero sfogo a interventi sferzanti e icastici sulla Chiesa, la teologia, la politica, la società e la condizione femminile. Scrive nei Diari: “C'è bisogno di penitenza nel Novecento, c’è bisogno di vita austera ora che anche i conventi sono ammobiliati con poltrone imbottite”.

Adriana Zarri: sugli animali

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La sua vita diviene quella di una donna che si pone ai margini del mondo. Ed anche della Chiesa. Un po’ come Simone Weil che mai optò per il battesimo e decise di rimanere sulla soglia della stessa Chiesa. Zarri è battezzata, certo, ma nel suo intimo resta appena fuori da un’appartenenza che sente troppo costringente. Lo Spirito, del resto, per tutti coloro che scelgono il silenzio, non può che parlare laddove non ci sono condizionamenti, affiliazioni, incapsulamenti di ogni genere.

Zarri sceglie per sé una sorta di monachesimo laico. Non sceglie la solitudine per fuggire dal mondo: di questo e della vita degli uomini offre continuamente giudizi anche duri e spiazzanti tutti maturati nell’ascolto di sé stessa, un ascolto che sa riconoscere la sua voce come unica e irripetibile. La Chiesa istituzionale spesso si arrabbia per le sue prese di posizione. Ma lei non se ne cura: conta di più la fedeltà alla propria coscienza che il giudizio di vescovi e cardinali. Come è documentato nel libro di Mariangela Maraviglia dedicato anch’esso a Zarri “Semplicemente una che vive”, un giorno le chiedono: chi sei? Risponde così: “Lasciamo cadere l’eremitismo, il monachesimo, la cascina, la campagna, perfino la preghiera. Preferisco dire che vivo: mi sembra più semplice e più ricco perché la vita comprende la preghiera, e forse la preghiera comprende la vita ed è vita stessa. E non è necessario ricordarmi; ma, se mai, i termini sono questi: ‘In una casa c’è una persona che vive’”.

La distanza dalla Chiesa istituzionale diviene anche opposizione. Come scrive Occhetto, nell’anno in cui Giovanni Paolo II dirama la lettera “Mulieris Dignitatem”, Zarri esprime il proprio dissenso circa il consueto “stile virilista” della Chiesa e ragiona sulla filosofia femminista in un lungo articolo apparso su “il Manifesto”. Per lei, più che di “differenza” occorre parlare di “identità” e “specificità” delle donne, del loro modo di vivere e percepire la realtà. Insieme, Zarri sa lasciarsi andare a prese di posizione aperte sulla sessualità. Così nel romanzo “Quaestio 98. Nudi senza vergogna”, dove discetta sulla non preminenza della verginità sul matrimonio e spiega come l’unione dei corpi sia l’anticipazione del Regno di Dio.

Nel 2008, dopo una lunga gestazione, dà alle stampe il suo ultimo romanzo, “Vita e morte senza miracoli di Celestino VI”, ritratto di un Papa atipico, salito al soglio pontificio per puro caso dopo essere stato per tutta la vita un semplice parroco di campagna. Lascia i pomposi appartamenti vaticani in favore di un’umile dimora, e propone nient’altro che “disposizioni modeste, gesti dimessi e piccoli”. Pian piano abolirà i fasti vaticani e i titoli curiali, smantellerà le strutture diplomatiche, il celibato obbligatorio per i preti e il cardinalato, rimarcherà la pari importanza dei laici e il sacerdozio universale a cui sono chiamati tutti i fedeli, snellirà le procedure burocratiche ecclesiali, aprirà al sacerdozio femminile ne all’elezione dei vescovi da parte delle chiese locali, inaugurerà una nuova dottrina morale piè al passo coi tempi, decidendo infine di istituire un parco cittadino nei giardini vaticani, cedere all’Italia lo Stato del Vaticano e così tornare al proprio ruolo di curato di campagna. Zarri non vedrà l’elezione di Francesco, un papa non distante, seppure non in tutto, dal quanto descritto in “Vita e morte senza miracoli di celestino VI”.

Malata da tempo ma lucide e combattiva sino alla fine, Zarri muore nell’eremo di Cà Sàssino a 91 anni. In “Epigrafe” una delle sue poesie più celebri scrive:

“Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua risurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri”.

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