Musica Rock

Trent’anni di Parklife, l’inizio paradossale del britpop

Gli Oasis volevano raccogliere il testimone dei Beatles, i Blur invece s’imposero come outsider

  • 24 aprile, 09:09
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  • Keystone
Di: Patrizio Ruviglioni

Il 25 aprile del 1994 tira aria di cambiamento sul mondo della musica. Kurt Cobain si è suicidato da meno di un mese, per la generazione cresciuta con i Nirvana è la perdita dell’innocenza: l’onda del grunge continuerà, ma con la data di scadenza segnata. C’è chi chiede già nuovi idoli e mode, il rock è ancora il minimo comun denominatore della discografia ma i suoi equilibri geopolitici si stanno per spostare. La tempesta perfetta del 1991 – Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers, gli stessi Nirvana tra i tanti – aveva messo al centro gli Stati Uniti e cancellato il Regno Unito, appena risorto con il fuoco di paglia della scena di «Madchester», più una risposta, uno spleen, a un decennio nero come gli Ottanta di Thatcher che altro; ma ora nel paese c’è un clima davvero diverso, e lo fotografano e lo inaugurano i Blur, trent’anni fa, con Parklife.

Blur

RSI Stargate 29.07.2015, 17:39

Nel giro di un’estate dovunque si parla già di britpop, un movimento – più che un genere – che riscopre i classici dell’Inghilterra, dai Beatles in giù, e li aggiorna con declinazioni diverse. Il punto è uno: l’orgoglio di essere inglesi, l’appartenenza. A cascata, sulla scia del successo, tutti tornato a voler essere inglesi, e l’Inghilterra diventa the place to be, con i gruppi che sventolano la Union Jack nel mondo che vengono sempre applauditi. Sono lontani i tempi delle Falkland. I Blur s’impongono meglio dei Pulp e dei Suede, con i quali hanno diviso gli esordi in quell’ultimo periodo di magra, chiusi con la prova generale di Modern life is rubbish (1993), e prima degli Oasis, che arrivano solo in autunno. E mentre i Radiohead pensano già a una direttiva loro, Parklife rappresenta un pioniere paradossale del britpop, un cortocircuito sulla concorrenza: dove gli altri sono puro orgoglio brit, ne rappresenta al tempo stesso un omaggio e una parodia.

Damon Albarn e Graham Coxon – le menti del gruppo, rispettivamente frontman e chitarrista, nonché eterni cane e gatto nelle reunion successive – ci avevano marciato fin dal singolo di lancio, Girls & Boys, a conti fatti uno dei classici della band, in pratica una trappola: su un tappeto di gomma che più che il rock ricorda il synth-pop dei Pet Shop Boys, racconta le scorribande dei ragazzi inglesi in vacanza a Magaluf, con una filastrocca che li ritrae come marionette scatenate ma idiote; una sfilza di remix dance la porterà sulle spiagge di mezzo mondo, i suoi protagonisti in cerca di libertà diventano il ritratto di una generazione, ma il brano resta una satira post-ironica che ci è e ci fa.

Come lo stesso Albarn d’altronde, bello d’una bellezza borghese, colto ma con lo sguardo assente, che non si capisce mai quanto e se è serio, e canta ambiguità, tra tic, ansie, paranoie con il sesso e teledipendenze di un mondo che sta per vivere la fine del secolo (End of a century, che per i Blur «it’s nothing special», non è niente di speciale, e giù a raccontare le abitudini malate). Il ritornello di Tracy Jacks, su un impiegato qualsiasi s’uccide perché tanto la normalità «è sopravvalutata», è la bussola per orientarsi tra le varie London loves, Magic America. Il riff di Parklife, con inserti del comico Phil Daniels, è una presa in giro del salutismo che può benissimo essere messa in cuffia mentre si fa jogging.

Chiaro, non è tutto un modo per sabotare i codici di sempre, banalmente, usandoli. Ci sono le grandi ballate, per esempio, quelle da britpop classico come To the end a This is a low, ma servono più che altro ad affermare il gusto della band per la tradizione – dalla grande melodia a un lavoro, appunto, che è un’antologia dei suoni che hanno fatto la storia del paese, fino all’hard-rock, raggruppati sotto lo stemma di alternative rock solo per semplificazione – e la ricerca di Albarn e Coxon, che in questo trattato di sociologia sul nuovo millennio, modaiolo e parodistico, trovano la formula di un pop barocco e al tempo stesso popolare. L’esatto contrario, insomma, dei ruspanti Gallagher, con cui il confronto diventerà inevitabile in quella che i giornali chiameranno «la battaglia del britpop». Ma la natura anarchica e splendente di Parklife, meno rassicurante e tradizionalista di quella degli Oasis, aprirà a un entusiasmo cieco per l’Inghilterra e la sua musica che neanche gli stessi Blur, molto più critici su tutto, avevano messo in conto.

Per questo, per tanti la contesa non avrà mai senso: gli Oasis volevano raccogliere il testimone dei Beatles, i Blur erano outsider; si possono considerare rivali solo in virtù del fatto che giocano due campionati diversi nella stessa epoca, nient’altro. E paradossalmente, la svolta alternativa di Albarn e Coxon dal 1997, che si defileranno del tutto dall’immagine di band britpop, aumenterà la percezione di Parklife come di un disco davvero rappresentativo della scena, quando in realtà ne era solo il suo inizio paradossale, già di traverso al fenomeno della cool Britannia che monterà di lì a poco. Insomma, quel lavoro sfuggente, che cambia faccia a ogni pezzo ed è un’isola a sé stante, sospesa nel tempo, avrebbero riportato l’Inghilterra sulla cartina; ma al resto ci avrebbero pensato gli altri.

La scorsa settimana, tra l’altro, al Coachella, mentre stava antando Girls & Boys, Albarn se l’è presa con il pubblico di giovanissimi lì davanti, a suo dire troppo freddi per quello che è ormai un pezzo di storia. Probabilmente, ha ammesso, è l’ultima volta che la sentiranno: dopo la reunion del 2009 e piccole interruzioni, pare che i Blur si scioglieranno per sempre, ergo gli sembrava assurdo che non si godessero il momento. Nessuna risposta. Neanche avesse fatto il giro, dall’entusiasmo alla noia, è come se, trent’anni dopo, la grandezza di un pezzo del genere stia ancora nel non essere mai capito fino in fondo.

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