Letteratura

La Svizzera vista con gli occhi dei bambini migranti

Due premi svizzeri scrivono della loro esperienza

  • 19 aprile, 08:15
  • 19 aprile, 09:01
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Raccontare un paese con l’ingenuità di chi ci arriva per la prima volta e non può credere ai propri occhi. Sguardi bambini, reali e senza filtri, disincantanti e concreti. Sguardi adulti e consapevoli, che fanno i conti col passato.

Negli ultimi due anni i Premi svizzeri di letteratura sono stati conferiti a due autori che hanno scritto – anche - del loro rapporto con il paese che li ha accolti. Due autori provenienti dall’Est Europa comunista, chi dalla Romania chi dai Balcani, che nelle loro pagine, con ironia e sguardi lucidi, riconoscenza e a volte perplessità, hanno saputo offrire visioni diverse della Svizzera. Le voci di cui scrivo sono quella di Eugène, che in Lettre à mon dictateur si rivolge direttamente a Nicolae Ceaușescu per raccontare il suo percorso migratorio, e di Ed Wige, autrice di Milch Lait Latte Mleko nel quale una bimba di 8 anni vive il suo primo anno in Svizzera tra idiomi diversi e contraddizioni sociali.

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Ho incontrato Eugène (Premio 2023) proprio nel punto di approdo dei suoi genitori in Svizzera, una cabina telefonica (che non c’è più) in Boulevard de Grancy, sotto la stazione di Losanna.

“Ognuno hai i pellegrinaggi che si merita! Venire qui mi ricorda chi sono. Sono nato a Bucarest ma una grande parte della mia vita è iniziata con l’arrivo dei miei genitori in Svizzera. Hanno fatto questo immenso viaggio per chiedere asilo in Svizzera. Per loro era possibile perché all’epoca si poteva entrare in Svizzera come turisti e restarci come rifugiati! Poi, un anno dopo, siamo arrivati noi”.

Ma perché scrivere una lunga lettera a un dittatore morto? Lo scopro nelle pagine del libro più intimo di Eugène, precise, ironiche, impeccabilmente costruite e profondamente umane: la sua stessa esistenza è legata indissolubilmente a quella del dittatore. E come il suo rapporto con la Romania cambia negli anni, così anche quello con il paese che lo ha ospitato.

Dal ‘Lettre à mon dictateur’:

Sono nato sei giorni prima che l’uomo camminasse sulla luna, ma all’età di sei anni sono atterrato in un mondo più strano ancora: la Svizzera.
A scuola, la maestra mi ha insegnato che la Svizzera è una confederazione (parola che non capivo), composta da venticinque cantoni (non capivo nemmeno questo termine) e semicantoni (semi cosa?!). Davanti alla classe, ha srotolato una cartina del paese. Con le sue dita dalle unghie dipinte di viola, ha indicato diverse zone: “Ci sono dei cantoni latini, dove non si parla il latino, bensì il francese. E poi ci sono dei cantoni germanofoni, dove non si parla tedesco bensì Schwyzerdütsch. Nei grigioni, sessantamila persone si esprimono in romancio, una lingua che a sua volta si divide in quattro dialetti. E in Ticino si parla italiano e soprattutto ticinese. E poi vi annuncio che presto nascerà un nuovo cantone: il canton Giura. Che sciocchezza! Non vorranno mica creare delle nuove frontiere all’interno del nostro stesso paese!” Ho consultato con lo sguardo gli altri allievi e mi sono sentito pienamente rassicurato: non ci capivano niente nemmeno loro. Quando la maestra parlava della Svizzera, i bambini svizzeri erano persi tanto quanto me.
In realtà era più complicato. Durante la ricreazione, ho scoperto che diversi allievi non erano nati qui. Sui ventun allievi della mia classe, due erano spagnoli, uno italiano, uno cinese, uno libanese, uno francese e una iraniana. Per non parlare del rumeno appena sbarcato.
Tutta questa bella gente si ritrovava intorno al LEM. Nel cortile della scuola era stata installata una riproduzione del Lunar Excursion Module! Placche ottogonali nere e oro, scala metallica al centro: mi arrampicavo nel modulo che gli astronauti americani avevano usato per visitare la luna. Ogni mattina ero Neil Armstrong. (trad. Maurizia Balmelli per UFC)

Quanto il nostro passato influisce sulla nostra identità?

“Quando parlo francese. per i vodesi non è vodese, per i parigini non è assolutamente francese ma svizzero, e appena a Bucarest sentono il mio rumeno mi dicono che sono straniero perché ho l’accento francese. Ho messo un po’ di ordine tra gli accenti, e mi sono reso conto che sono la mia identità. L’accento ci definisce in maniera forte. C’è chi lo perde ed è un gesto culturale: lo perdo per trovare lavoro, per nascondere una parte della mia identità. Ma sia che lo manteniamo sia checerchiamo di perderlo… l’accento parla sempre di noi!”

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Non con gli accenti ma con le parole gioca invece Ed Wige nel suo Milch Lait Latte Mleko, premiato quest’anno dall’UFC. Il suo è un racconto, uscito per Paulette Edition, più breve certo di quello di Eugène – di cui è stata studente, e di più contenuto respiro. Ma ugualmente potente nella sua candida ingenuità. Mentre il primo, una lettera, è totalmente autobiografico, questo, pur rifacendosi all’esperienza dell’autrice, è di finzione. Prende ispirazione da un fatto realmente accaduto ma poi racconta – immaginando - l’arrivo di una bambina con la sua famiglia in Svizzera. Anche in questo caso è scritto in prima persona, ma chi parla è un’ottenne. Ed Wige gioca con le parole e con le emozioni, e il risultato è sorprendentemente reale e potente. La bambina scopre il paese che l’accoglie e si sente a volte sola, a volte felice. Il suo paese, nel Balcani, le manca, come suo padre.

“È successo tutto in maniera abbastanza naturale. Mi interessava scoprire come un bambino viveva l’arrivo in Svizzera. Certo, è un’esperienza personale, quando sono arrivata ero piccola e avevo delle impressioni visive, olfattive. Impressioni scucite, come nel libro. Era un modo di ricollegarmi con qualche ricordo personale anche se la storia non è assolutamente biografica. Il fatto di far parlare una bambina mi ha permesso di affrontare un soggetto grave in maniera laterale, non frontale e drammatica ma con uno sguardo nuovo e curioso. Questo sguardo può permettersi di essere scucito. Può fondere avvenimenti gioiosi e tristi, e tutto questo ha senso in un’immaginario infantile. Mi ha permesso di divertirmi con la lingua. Il testo è così concentrato e corto perché la lingua nei bambini cambia velocissimamente: avere la temporalità di un anno mi ha permesso di tenere un registro linguistico”.

Da Milch Lait Latte Mleko:

Ricordo molto bene il nostro arrivo in Svizzera. Il tempo era grigio. C’erano 13 °C. I doganieri parlavano una lingua strana come nei film sulla seconda guerra mondiale e quando ci hanno messi contro il muro ho guardato mama e lei mi ha detto di sorridere. Wie lange? Drei Jugos sitzen in einem Auto. Wer f ährt? Papiere ausfüllen, bitte. Rifugiati? Era l’ultimo giorno in cui stavamo con papà e poi gli svizzeri l’hanno spedito nei Paesi Bassi. So wer fährt? Der Polizist. Io e mama siamo potute restare.(…)
Mama cosa devo mettere sotto professione della madre ? Sarta. Ma non sei mai stata sarta! Che ne sanno loro e poi e le giacche di Madame Comte le riparo io e sarta è utile e va bene. E per papà non bisognava mettere nulla giusto barrare la casella.
La maestra non riusciva a urlare e le porte sbattevano si correva in tutti i sensi si gridava si picchiava. Spesso erano i maschi che picchiavano i maschi o le femmine. Le femmine non picchiavano chiamavano la maestra quando venivano picchiate. Al paese io avevo picchiato delle femmine e dei maschi e i bambini si picchiavano senza tanto guardare femmine o maschi si picchiavano per delle sante ragioni un cazzotto e tutto rientrava nella norma tra femmine e maschi.
Il giorno in cui un maschio mi ha picchiata gli sono corsa dietro e gli ho mollato un cazzotto. La maestra canterina non era felice e mama ancor meno. Non ho mai più ridato pugni a nessuno e il pugno m’è rimasto nello stomaco. Anche perché mama era una bugiarda. (Trad. Sara Catella per UFC)

Percorsi Podcast:

https://www.rts.ch/audio-podcast/2022/audio/eugene-auteur-lettre-a-mon-dictateur-ed-slatkine-25859659.html
https://www.lfm.ch/actualite/culture/ed-wige-de-lepfl-au-prix-suisse-de-litterature/

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